Riforma, riforma, riforma. Una parola che in ambito calcistico sentiamo pronunciare spesso. Da chi? Da chi vuole riformare, ovviamente. Perché esistono soggetti a cui la riforma può andar bene. No, non i grandi. Ai ‘potenti’ del calcio conviene giocare, giocare, sempre giocare. Più squadre possibili, più competizioni possibili, più partite possibili. Nel weekend e in settimana. Le tv pagano, gli introiti aumentano. Va così. Ma succede anche che una pandemia colpisca improvvisamente il calcio che conta. E che succede? Puff. Saltano le certezze. Italia tra i paesi più colpiti al mondo, così come il pallone, appunto. Manca un quarto di stagione alla fine dei campionati, ma le certezze – al momento – sono poche. Si ipotizzano (ma solo ipotizzano) date, si ‘battaglia’ in Lega tra chi vuole riprendere e chi no, si litiga tra società e calciatori per la questione stipendi.
Perché serve modificare il sistema
In un contesto apocalittico come quello attuale emerge, però, una certezza, l’unica: la riforma. Una riforma serve, ora o mai più. L’attuale periodo storico non è altro che un assist per cambiare tutto il sistema, dai ‘piani alti’ a quelli più bassi, che sono poi coloro a cui tutto ciò gioverebbe di più. Lo stop dei campionati e la continua rincorsa alla ricerca di date per concludere ha fatto saltare fuori l’annoso problema dei calendari, super intasati da campionati, coppe di vario tipo e impegni nazionali. Un labirinto senza uscita. E, se il labirinto trova ostacoli imprevisti (il Coronavirus), ecco che uscire diventa davvero un problema. E ad imprevisti già inaspettati se ne aggiungono altri, ancor più complessi. Ai calendari intasati si aggiunge il problema economico, la mancanza di risorse e di introiti provenienti (per le serie minori) da quel poco da cui si può guadagnare (non per tutti): le partite e gli incassi al botteghino. Non per tutti, dicevamo. Sì, perché anche questo a tante non basta. E non bastava già prima. Da qui la richiesta: riformare.
Come può cambiare il calcio italiano?
Come può cambiare il calcio italiano? Semplice. Ridurre. Quello è il primo passo, ma in realtà non è altro che la chiave per sganciare un meccanismo che, a catena, apre altre porte. Ridurre le squadre, dalla Serie A alla Serie C. Massima serie da 20 a 18, cadetteria a 20 e due gironi da 20 di Lega Pro. 78 club. Un bel ‘fardello’ in meno rispetto ad ora. E meno problemi, soprattutto in C. Di squadre ‘affogate’, con l’acqua alla gola, già in difficoltà a metà stagione, in terza serie ne abbiamo a bizzeffe, ogni anno. Eliminare la C2 per uniformare tutto in una C unica con tre gironi da 20 non è bastato, è evidente. E gli esempi sono recenti, con squadre poi escluse a metà percorso e classifiche sfalsate. Ma quello non era bastato ad aprire gli occhi. Quello, sì. Ma questo, il momento attuale, sembra aver aperto gli occhi a tanti, se non a tutti. C’è di mezzo altro oltre il calcio, e la sensibilità ha fatto breccia anche nei più forti. I danni? Non si conteranno adesso, ma nel futuro immediato. Ma riformando, forse, si potranno limitare.
Non è solo un fatto economico, ma anche di competitività
C’è di più, però. Non è solo un fatto prettamente economico. C’è anche quello di campo. Quello sportivo. Quello dell’imprevedibilità, della competitività. Avere una A a 18 squadre vorrebbe dire mantenere alta l’attenzione di quasi tutte le squadre fino all’ultima giornata, magari modificando il format delle retrocessioni (modello tedesco con scontro tra terzultima di A e terza di B?). Le promozioni dalla C alla B, poi, ne gioverebbero altrettanto, avvantaggiando un numero maggiore di partecipanti. Raggiungere la cadetteria infatti, ad oggi, è un’impresa quasi ascrivibile allo sbarco sulla Luna. E’ più facile che la Spal o il Brescia vincano lo scudetto. Tante squadre, pochi posti. Cosa fare? La risposta l’avete ormai capita: riformare!