I dati sono impietosi, il trend va avanti da lustri, ma – in realtà – si resta sempre sulla sintesi finale e raramente si va alla genesi del fatto. Parliamo di football di vertice, in Italia e altrove, e il paragone è sempre più impietoso sul piano finanziario. Il fatto è che poi, ovviamente, alle squadre italiane si chiede di essere competitive proprio con quelle delle altre Nazioni il confronto finanziario con le quali non sta in piedi.
Prendiamo come riferimento i numeri uno in Europa: gli inglesi. Bene, già nel 2011 vi era una sproporzione di introiti che superava il 60% e da allora la crescita annua degli introiti della Premier è stata – in media – del 15% annuo contro il 5% della Serie A italiana.
La lega inglese nel 1992 incassava dalle televisioni 304 milioni di sterline per il triennio, mentre ha appena venduto i diritti 2025/2027 alla iperbolica somma di 7,8 miliardi di euro, quasi 2 miliardi all’anno.
La Lega Serie A fa fatica a chiudere sopra i 900 milioni all’anno. Ma, a fronte di alcuni dati simili o, addirittura, nei quali l’Italia è superiore (vedi lavoratori nel mondo del football, 112.000 in Italia contro i 100.000 inglesi), ciò che lascia sbalorditi, il vero freno alla crescita competitiva del calcio italiano è la ripartizione delle risorse.
In Inghilterra la suddivisione prevede una quota uguale per tutti di 84 milioni di sterline (!!) e un’altra (minoritaria) legata al numero dei passaggi in tv.
Serie A, come si ripartiscono i soldi delle televisioni
In Italia la ripartizione prevede circa 25 milioni di euro uguali per tutti e poi il grosso della torta suddiviso secondo una serie di parametri che, in stile puramente italico, gira e rigira sono cuciti addosso per stornare le risorse ai soliti noti: radicamento sociale (diteci voi come fa a competere l’Udinese con la Juventus sul territorio nazionale ) e i risultati sportivi che rappresentano – nelle varie voci che compongono il parametro – una gigantesca supercazzola atta esclusivamente a convogliare, ancora, i flussi finanziari (che già sono quelli che sono) nella medesima direzione.
Leggere “audience”, “biglietti venduti”, “risultati storici”, “risultati degli ultimi 5 campionati”, “classifica dell’ultimo campionato” e “punti dell’ultimo campionato” è un mix perfetto tra offesa e presa in giro.
Il sistema è chiuso e tale deve restare, ai vertici, con buona pace delle realtà che vorrebbero emergere e che danno, dichiaratamente fastidio, come ebbe a sottolineare con garbo estremo Andrea Agnelli rispetto alle ambizioni dell’Atalanta.
Tutto ciò uccide la competitività del torneo e ammazza anno dopo anno la sua appetibilità, ma il sistema non vuole correre rischi: meglio poveri sempre più ma con le leve del potere in mano ai soliti che rivoluzioni che – hai visto mai – possano portare nuovi protagonisti alla ribalta.
In questo senso il format della Coppa Italia è emblematico: l’Italia è l’unico Paese nel quale la coppa di Lega (nata per consentire, per una volta, alle squadre piccole, spesso di categoria inferiore, di competere con le grandi), funziona al rovescio, con le piccole che devono andare a sbancare San Siro ad esempio (se ci arrivano, visto che le big entrano in gioco solo alla fine), piuttosto che sia l’Inter a dovere andare a vincere a Francavilla.
Quanti soldi incassano i club della Premier League e quanti quelli della Serie A
Ma tornando ai conti un dato è emblematico: gli ultimi dati (22/23) ci dicono che l’ultima della Premier League (il Southampton) ha incassato con 121 milioni molto più dell’Inter (87) e del Milan (80). Neanche si provi a far stare in piedi il confronto con la prima delle inglesi, il Manchester City, con 206 milioni.
Se poi spostiamo il tiro anche sui ricavi commerciali dei club (escluse eventuali plusvalenze) là viene il freddo, perché, ad esempio, lo stesso City incassa 826 milioni contro i 379 dell’Inter.
Sommando le due voci vediamo che il City supera il miliardo, mentre l’Inter non arriva alla metà di questa cifra. Eppure proprio City e Inter l’anno scorso si sono giocate la finale di Champions e ora è ben chiaro perché ai nerazzurri di Inzaghi si chiese una specie di miracolo.
Potremmo continuare a lungo, ma la domanda è una: perché tutto questo? Perché negli anni 80 e 90 (anche inizio 2000) le cose erano ribaltate?
I protagonisti del “campionato più bello del mondo”
Non è difficile da comprendere: il “campionato più bello del mondo” era tale non tanto perché la Juve aveva Platini e Boniek, l’Inter Rummenigge e poi Ronaldo e il Milan Van Basten e Gullit.
Il “campionato più bello del mondo” era tale perché Zico e Edinho sceglievano l’Udinese, Maradona e prima ancora Krol il Napoli, Falcao e Cerezo la Roma, Passarella e Batistuta la Fiorentina, Dirceu l’Avellino, Kieft il Pisa, Junior il Torino e poi il Pescara, Briegel ed Elkjaer il Verona, Guardiola il Brescia, Francis e Brady la Sampdoria, Skuhravi e Aguilera il Genoa, Pasculli il Lecce, Cowans il Bari, Laudrup la Lazio e via così…e ciò rendeva il torneo il più bello del mondo, non questo o quel club.
Questo accadeva, ovviamente, perché anche i club medio-piccoli avevano le risorse necessarie. Pensateci: nonostante l’esistenza al suo interno di club dalla capacità finanziaria infinita, ancora oggi il brand Premier League nel mondo è molto più forte, ad esempio, di quello del City e la stessa cosa accade negli Usa con il brand Nba rispetto alle singole – pur leggendarie – franchigie.
Fate la prova con l’Italia e riderete a lungo: a chi verrebbe in mente di paragonare il brand della Lega Serie A con quello della Fc Juventus, ad esempio?
Suvvia, siamo seri, è improponibile e, vedete, il fatto è che gli sponsor, le tv non comprano una squadra per volta, comprano il torneo nella sua interezza e, dunque l’appetibilità complessiva.
Negli anni quanti club professionistici in Italia sono falliti o retrocessi, penalizzati per le schifezze più varie? Non si riesce a contarli. E negli altri Paesi? Il rapporto, a essere generosi, è di 1 a 100.
Ci siamo risposti da soli, il nodo è tutto qua e, fintanto che l’Italia deciderà di continuare a proteggere le 3 o 4 big a dispetto del movimento, il football italiano sarà destinato a un trend che, tra l’altro, (in virtù delle leggi e degli automatismi del mercato finanziario), anche se, per magia, le cose andassero a posto domani sarà in ogni caso quasi impossibile ribaltare prima di un decennio almeno.
Ecco, si fa fatica a capire questo: quando già anni fa si diceva che il calcio, la Lega Serie A e B (all’epoca era, saggiamente, una sola), la Figc conoscevano una gravissima crisi politica, alla gente non importava, perché gli italiani – e non solo nel football – hanno misteriosamente deciso che gli affari della politica non interessino al Paese.
Peccato, però, che poi le conseguenze di immobilismo, scelte sbagliate, strategie folli o mirate solo alla salvaguardia del mantenimento di privilegi e status quo ricadano immancabilmente sul prodotto (se si tratta di football) o sul servizio (se parliamo di Stato sociale), temi che, invece, alla gente interessano tanto. E a quel punto, ormai, c’è poco da fare.
D’altra parte, mentre in Italia, anno dopo anno, venivano messi alle strette i club delle serie minori senza che nessuno si curasse del fatto che, ad esempio, in molte zone del Paese non si riescono a mettere in piedi i campionati di seconda e terza categoria, in Inghilterra, da sempre, esiste una fascia oraria protetta (primo pomeriggio del sabato) nella quale nessun match può essere trasmesso in tv perché in quegli orari giocano tutte le squadre dei campionati minori, locali e rionali. Giocano tutte assieme e il City o il Liverpool non devono togliere loro nemmeno uno spettatore.
Ecco che, probabilmente, gli inglesi, semplicemente, rispettano il football, nella sua interezza, nel suo radicamento sociale e anche nelle sue dinamiche economico-finanziarie. L’Italia degli ultimi 20 anni no. E, come dicono gli americani, “That’s all, folks!“.