Inizio così: non sono un esperto di economia. Mi ‘copro’ in questa maniera. So che potrebbe non bastare, di questi tempi. Ma su questo ci tornerò dopo. Da settimane, ormai, si è nettamente moltiplicato il numero di epidemiologi, virologi, statistici e matematici. Un po’ come quando si dice: “In Italia siamo tutti allenatori”. Ecco, il punto è proprio questo: adesso gli allenatori sono scomparsi. Tutti. Si sono improvvisamente trasformati in medici. Molti falsi ipocriti e moralisti, in pratica. Accade spesso, in tempi social, che la smania da protagonismo e la voglia di fare incetta di like sui social porti l’utente a schierarsi “dove si sta meglio”. E’ più facile di questi tempi dire: “Ma come fate a parlare di calcio? La gente muore e si pensa a pianificare la ripresa di allenamenti e campionati?”.
Fermiamoci qua. Premessa, consueta: come spesso sottolineato su queste pagine, in questo momento lo sport tutto passa in ultimissimo piano. Di fronte ad ospedali ‘affogati’, a migliaia di morti, alle città deserte, all’incertezza sul futuro, all’impossibilità di poter degnamente piangere i propri cari. Il calcio, adesso, è l’ultimo dei pensieri. Giusto. E allora che facciamo? Fermiamo tutto? Ma sì, non parliamo di altro. Coronavirus la mattina, a colazione. A pranzo, nel pomeriggio e poi la sera. Non si parla di calcio, non si parla della normalità (che dovrà tornare), non si parla di niente. Stiamo soltanto a commentare il numero di contagi e morti giornalieri, di numero di tamponi, di interviste ad esperti vari. Il 4-4-2 non interessa più, se quel rigore è netto o regalato neanche. Tanto ormai siamo tutti medici, come detto.
Torno all’inizio. Non sono un esperto di economia, dicevo. Però snocciolare dei numeri ufficiali non mi costa niente. Lo possono fare tutti. E così lo faccio. Il calcio rappresenta il principale sport italiano con 4,6 milioni di praticanti, 1,4 milioni di tesserati per la Figc, quasi 570.000 partite ufficiali disputate ogni anno, di cui ben il 99% di livello dilettantistico e giovanile. Il sistema calcio è il principale contributore a livello fiscale e previdenziale del sistema sportivo, con quasi 1,2 miliardi di euro generati solo dal calcio professionistico con un’incidenza del 70%. Il fatturato diretto generato dal settore calcio è stimabile in 4,7 miliardi di euro e il 12% del Pil del calcio mondiale viene prodotto nel nostro Paese. Tutti dati emersi dal Bilancio Integrato 2018 della Figc, la rendicontazione annuale della Federcalcio.
In poche parole, in Italia, il calcio è molto più importante di un normale ‘pallone che rotola su un campo’. Dietro di esso c’è un mondo. A sé. Ma un mondo che genera introiti. Elevati. E molto influenti nell’indotto più generico legato all’economia del paese. 90, semplicissimi, normalissimi, minuti. 22, semplicissimi, normalissimi, uomini che rincorrono una sfera avanti e indietro. No, non è così. Il calcio crea centinaia di migliaia di impieghi. Per non dimenticare le agenzie di scommesse, il merchandising, la vendita dei biglietti, i diritti televisivi.
Il calcio italiano fa bene allo stato italiano. Mai frase fu più cruda. Brutta, così, da affermare. Ma, piaccia o non piaccia, è la verità. E’ la conseguenza di ciò che ruota dietro, frutto della passione per questo sport. Provare a pianificare una ripresa, ad oggi, è NECESSARIO. A dispetto di quei ‘potenti’ con interessi diversi dietro (quelli sì che sono da condannare), ci sono vertici del pallone che hanno davvero a cuore le sorti di questo sport perché intorno alle loro scelte c’è una grossa fetta dell’economia italiana che deve ripartire. Sì, perché prima o poi dobbiamo ripartire, tutti. E se non si pianifica, ripartire è molto più difficile. I danni sull’economia che vedremo nel medio-lungo periodo rischiano di essere ancora più gravi del virus stesso. Bisogna limitarli, i danni. Pianificando. E se tutti spingono perché, in un modo o nell’altro, finiscano i campionati, è perché sono a conoscenza dell’enorme perdita che si genererebbe non facendolo. E che si trasmette anche nell’economia del paese, già gravata. A tal proposito, la cifra che Deloitte stima di perdita in caso di annullamento del campionato sarebbe di 720 milioni di euro per le sole società di calcio. Un processo che, a cascata dalla Serie A alle categorie inferiori, rischia di creare un caos inedito.
Eh sì, perché qui arriviamo alla realtà ancora più grave di quella descritta finora. Le categorie minori. I potenti della A non potranno che uscire ‘solamente’ ridimensionati da questa situazione. Ma dalla B in giù il discorso è ben diverso. Di mezzo ci va il padre di famiglia. Di mezzo ci va il presidente che, per mandare avanti la società di calcio e l’azienda che gestisce, sfrutta l’incasso dei botteghini, gli sponsor. Tutto rischia di andare in fumo. “Dalla Serie B alla Serie C e giù fino al mondo dilettantistico, il rischio è quello di perdere oltre tremila società. Sarebbe un disastro”. Non lo abbiamo detto noi, lo ha affermato il presidente della FIGC Gabriele Gravina qualche giorno fa.
“Sarebbe un disastro”. Certo che lo sarebbe. E lo abbiamo spiegato sopra. Il calcio ha bisogno di ripartire. Deve. E’ necessario, come scritto su. Non è cattiveria, non è crudeltà. La crudeltà, semmai, è lo scontro tra presidenti sull’inizio degli allenamenti. Su chi avrebbe più interesse a finire e chi a chiudere qua (“perché sennò la mia squadra retrocede”). Su quei calciatori che potrebbero storcere il naso di fronte ad un taglio dei propri stipendi milionari. Ma, al di là dei pochi potenti ‘al comando’, l’80% di questo sport muove una buona fetta dell’economia italiana.
Non fermiamoci alle frasi fatte o alla smania da protagonismo o da like sui social. E’ facile dire “come fate a parlare di calcio?” E’ facile ‘schierarsi’ dalla parte più forte. Al momento non è semplice parlare di calcio. Ma, almeno, lasciate pianificare a chi vorrebbe cercare di limitare i danni anche nel calcio. E a chi lo sta facendo senza mettere di mezzo gli interessi personali…