Acerbi si è fermato prima della gara contro il Genoa dopo 99 partite, nessuno aveva giocato quanto lui in serie A dal 2017. Un brutto colpo per la Lazio. Il centrale rimarrà fuori per qualche gara. Un indurimento al polpaccio che ha bloccato l’Higlander del nostro campionato. In una lunga intervista concessa al portale “L’Ultimo Uomo”, che uscirà sul prossimo numero della rivista “Il Calciatore”, Acerbi ha raccontato il periodo della malattia descrivendolo con una frase shock: «Il cancro è stato la mia fortuna. Ringrazio il Signore per averlo avuto». Un’affermazione forte, che nasconde dietro un periodo di perdizione, precedente a tutto ciò: «Ho scoperto di essere malato a luglio del 2013, appena arrivato al Sassuolo. Operazione e dopo tre settimane ero di nuovo in campo. Poi la ricaduta. Continuavo a comportarmi da non professionista fuori dal campo. Battevo i pugni sul tavolo, mi mettevo a gridare in casa da solo “esci dal mio corpo, vai via!”. Però continuavo a fare la vita di sempre. Le serate, le bevute. Reagivo così alla malattia, stando fuori fino alle 7 del mattino. Senza, sarei finito a fare una carriera in Serie B o magari avrei smesso. Per fortuna lassù qualcuno mi ha voluto bene e mi ha mandato la malattia altrimenti sarei finito malissimo. Oggi sono soddisfatto della persona che sono diventato, nonostante tutti i miei difetti».
Oggi Acerbi è un uomo diverso, ma non completamente realizzato: «Nella mia testa questo non è il mio punto d’arrivo e l’Acerbi di oggi non è il miglior Acerbi possibile. Se così fosse vorrebbe dire sedersi… Ora devo solo pensare a fare il meglio possibile in ogni minima cosa. Poi si vedrà alla fine. Alla fine della stagione, alla fine della carriera».
La morte del padre, avvenuta quando giocava al Milan, è stata un altro trauma: «Io giocavo per mio padre. Ci teneva molto, forse troppo. Sicuramente più di me… Fatto sta che una volta che lui non c’è più stato io non avevo nessuno per cui giocare. Non avevo rispetto per me, non avevo rispetto per il mio lavoro, non avevo rispetto per chi mi pagava. Spesso arrivavo al campo alticcio, senza aver recuperato dai superalcolici della sera prima. Non me ne fregava niente. Volevo solo divertirmi e giocare».
Acerbi, sul profilo WhatsApp, è raffigurato con un bambino: «Si chiamava Elia. Non c’è più. L’ho conosciuto a Udine, nel reparto di oncologia pediatrica dell’ospedale. Mi ha insegnato tanto, chiedevo a suo padre se davvero sapesse che gli restavano pochi mesi da vivere e lui mi rispondeva di sì. Mi sembrava impossibile che riuscisse a ridere e giocare come faceva».