Allenatore Juventus, la rivelazione di Barzagli: “ieri Paratici…”

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IL RITIRO DI BARZAGLI – Sono giorni particolari in casa Juventus, il difensore Andrea Barzagli ha deciso di appendere le scarpette al chiodo dopo una carriera che ha regalato grosse emozioni. Adesso è il momento di pensare al futuro, intervista a ‘La Gazzetta dello Sport’ dove vengono affrontati vari argomenti.  «È stata un’emozione forte. Avevo vissuto una settimana molto tranquilla, perché mi sentivo sereno. Secondo me era arrivato il momento giusto. E le assicuro che non è facile, da calciatore, decidere di smettere. Ho preso questa decisione con grande serenità. Ero contento, sapevo sarebbe stata una bella festa. Poi la mattina mi sono svegliato e mi è iniziato un po’ di magone, sapevo che sarebbero venuti la mia famiglia e i miei amici. Ho avuto un’annata calcisticamente difficile, sono stato molto fuori, non mi sentivo più all’altezza degli altri. E quando sei in una squadra del genere, con dei giocatori così, allenarti diventa impegnativo, c’è tantissima qualità quindi devi star bene fisicamente. Nello spogliatoio i ragazzi hanno scherzato e il magone mi è passato. Non mi aspettavo il prepartita con i ringraziamenti del presidente e la squadra schierata. Gigi che è venuto apposta da Parigi, mi ha fatto un enorme regalo. E già lì è stata un’emozione forte. Siamo ritornati dentro lo spogliatoio, quindi ho provato un attimo a scuotermi e a dire: “Ragazzi, grazie mille, però facciamo una partita seria, proviamoci”».

E ci siete riusciti?

«Speravo che loro mi dessero una mano, ma in campo ero completamente fuso, ero nel mondo delle favole… Quando sono uscito la prima cosa che ho pensato è stata: “Ecco, è finito tutto. Però ho fatto una carriera stupenda e meglio di così non poteva finire. Nella Juve, con un altro scudetto”. Poi ci sono stati gli abbracci con compagni e avversari. Avevo il pianto in gola e dovevo sfogarlo. Lo avrei fatto da solo nello spogliatoio. Invece poi mi ha stretto Max. E in quel momento tutto è coinciso: la tristezza, l’orgoglio, la riconoscenza verso di lui. È stato bello quando la curva mi ha chiamato, ho fatto il giro dello stadio con la partita in corso. Mi hanno voluto bene. Per quello che ho fatto in campo, ma forse anche per il comportamento fuori. La sera abbiamo fatto una piccola festa. Sono venuti da lontano Llorente, Lichtsteiner, Pogba. Nel calcio siamo tutti professionisti, siamo tutti colleghi, ma non è scontata l’amicizia».

Che cosa è stata la BBC?

«L’intuizione è stata di Conte, che ci ha messo a giocare a tre. Però sembravamo fatti apposta per incontrarci. La BBC esaltava le doti di ognuno. In campo bastavano gli sguardi, ci capivamo al volo. C’è stata in tutti e tre grande professionalità, grande attaccamento alla Juve e soprattutto grande voglia di migliorarsi. E questo non è scontato, perché nel calcio ci sono giocatori che potrebbero fare molto di più e non lo fanno. C’è una B in più da ricordare, quella di Gigi: un punto fisso, intelligenza e talento».

Quale è la differenza tra il giocare nella Juve e altrove?

«Il Dna. Entri dentro questo club e senti subito il peso della maglia, la storia del club, la sua filosofia. Le persone che ci lavorano dentro, dal presidente fino a chi è considerato l’ultimo della piramide, hanno questa mentalità vincente. Non è un caso se la Juve ha conquistato più scudetti degli altri. Perché lo scudetto si vince giornata per giornata, in allenamento quasi più che in partita, fuori dal campo non meno che dentro. Ogni volta che ti svegli e sai di dover andare a lavorare, ci vai con lo spirito giusto? Ci vai perché ti vuoi sacrificare? Ci vai perché ti vuoi migliorare? Questo fa la differenza. E l’ha fatta anche in questi otto anni».

La più grande delusione e la più grande gioia della sua carriera?

«Il Mondiale vinto è la cosa più bella. Non me lo sono goduto come avrei voluto. Avevo 24 anni e non riuscivo a realizzare in pieno cosa era successo. Rimane una cosa incredibile. Quando, ancora oggi, vedo in tv Fabio Grosso che calcia il rigore… Ancora mi dà i brividi, e di più adesso. Delusioni ce ne sono state. Le Champions sono state due sconfitte molto amare. Non arrivare al Mondiale è stata una delusione fortissima. Specie per chi l’aveva vinto. Un Paese intero che ti guarda e deluderlo ti brucia. Quando è successo avevo 35 anni, non avrei potuto più riscattare quel risultato. Nei giorni successivi siamo stati tutti molto male».

Delle due finali Champions quale le brucia di più?

«Finali diverse. Con il Barcellona non eravamo favoriti e forse eravamo arrivati lì senza grandi sicurezze. Nel primo tempo siamo stati quasi impallinati, ma nel secondo abbiamo giocato benissimo. Una sconfitta che mi ha bruciato, perché è stata una partita molto equilibrata. Con il Real non so cosa sia successo. Eravamo andati con grandi certezze che però si sono sgretolate subito. Abbiamo fatto un primo tempo fuori giri. Non avevamo mai giocato così, con questa voglia esasperata di andare avanti. Avevamo sempre avuto una squadra tosta, compatta e lì è venuta fuori invece tutta l’esperienza dei giocatori del Real che erano abituati a quelle partite. È stata forse più bruciante la seconda perché almeno potevamo giocarcela meglio. Perdere una finale 4 a 1 è brutto, molto brutto».

Con l’Ajax che è successo?

«Siamo arrivati corti, come rosa. Quando ti mancano dei giocatori importanti, in quelle partite, paghi un prezzo. La Champions non è una passeggiata come la fanno apparire molti. Non è scontata, mai. Le due finaliste stavano per uscire al girone. La Champions non è un campionato: dopo aver passato il girone per due mesi non la giochi. Riparti e devi vedere le condizioni della tua squadra, quella di chi incontri. Poi, soprattutto, ci sono il palo, il gol sbagliato, l’errore. Ci sono tante cose che, in un’andata e ritorno, possono condizionare. Non necessariamente Real, Barcellona, Ajax, City, Juventus, Bayern, Psg sono inferiori alle odierne finaliste. Noi abbiamo giocato una discreta partita ad Amsterdam. Potevamo finirla in vantaggio. Abbiamo fatto anche un ottimo primo tempo, in casa. Poi il loro gol ci ha messo ansia, siamo andati in difficoltà mentale. Questo e le assenze ci hanno impedito di reagire. In casa difficilmente una squadra come la nostra concede quattro, cinque palle gol. Potevamo perdere ancora peggio. È stata una botta per tutti. Nell’ambiente, tra gli addetti ai lavori si era diffusa l’idea che la Juve dovesse arrivare naturalmente in finale. Però non è mai scontato, in Champions. Ci siamo rimasti male anche noi perché avevamo una squadra forte, potevamo arrivare in fondo».

Con Ronaldo non era automatica, la vittoria in Champions

«No. Quelle sono le aspettative. È un giocatore che ci mancava, certo. Quando le partite contano, con Ronaldo, parti sempre con un gol di vantaggio. Ce l’ha fatto vedere, Cristiano, segnando sempre nelle partite che contavano. Pensi al ritorno con l’Atletico. Sono quei giocatori che ti fanno vincere. Però poi dietro devi avere una squadra forte».

Lei può non dirmi delle banalità. Com’è Ronaldo? È come lo immaginavate, nello spogliatoio?

«Lui è un divo, non c’è dubbio. Lo è per quello che si è creato: è il personaggio più seguito al mondo anche sui social. È un mito mondiale. Però poi è entrato in uno spogliatoio di calcio, il nostro. Ed è entrato come uno dei tanti. Ha dimostrato prima di tutto la sua professionalità, perché è un professionista incredibile. Poi ha messo anche la sua personalità e simpatia. Forse all’inizio potevamo vederlo come uno di quei giocatori che fanno la differenza e quindi non con timore ma con rispetto, poi abbiamo scoperto non solo il giocatore ma la persona. Ci abbiamo scherzato, abbiamo anche noi la chat e scriviamo cavolate, come tutti, e lui c’è. Cristiano ha sempre preso parte alle cene di squadra, come tutti. Non fa il divo, pur essendolo».

Le dispiace che Allegri vada via?

«È una persona genuina, veramente genuina che specie con me, Giorgio, prima con Gigi, passava del tempo a parlare di vita, non solo di calcio. Ci ha fatto fare anche delle grandi risate, in questi anni. Nelle riunioni tecniche raccontava aneddoti in livornese. Ultimamente abbiamo tre quarti della squadra straniera… Faticavamo, Giorgio è anche livornese, a capirlo. Immagino gli altri. Uscivamo dalle riunioni sempre con il sorriso sulla bocca. È una persona che ti toglie quel minimo di stress e tensione che hai e che ti porta il calcio italiano. Vai a lavorare e fai le cose serie però la battuta, stemperare il momento, anche prima delle partite, aiuta. Max non è solo un ottimo tecnico, è molto bravo a curare anche i rapporti personali. Mi ha insegnato molto e secondo me è cresciuto tanto anche lui, in questi anni. Mancherà, sono stati cinque anni intensi, belli e non pesanti».

Conte era diverso.

«Antonio è un martello sul lavoro, ma anche lui, quando si lascia andare, è divertente. È uno molto concentrato sul lavoro. Sempre. È anche grazie a questo che ci ha fatto crescere. È stato parte fondamentale della famosa BBC, Conte ci ha insegnato un modo di difendere diverso rispetto a quello di una volta. Molto più aggressivo, un modo originale di marcare. Anche grazie a lui c’è stata questa crescita importante della Juventus. Dopo di lui Max è stato il meglio che si potesse trovare perché ha integrato la mentalità che aveva creato Antonio con quel tocco di leggerezza che ha lasciato tutti giocare con più semplicità».

Di che allenatore ha bisogno la Juventus?

«Non lo so e, in questo momento, visto che stanno decidendo, non mi voglio esprimere. Loro sanno benissimo cosa devono fare e ieri Paratici ci ha detto che hanno le idee chiare. Hanno sbagliato raramente e prenderanno la decisione giusta per il club».

Lei vorrà fare l’allenatore?

«È una cosa a cui ho pensato. Seguirò il corso a Coverciano, voglio vedere se questo mondo mi appassiona. Quando fai il calciatore sei come una piccola azienda e pensi solo a te stesso, gira tutto intorno a te, decidi tu. Da allenatore devi iniziare a pensare a 360 gradi. Non è soltanto il problema di chi far giocare ma anche avere rapporti con il giocatore, con lo staff, con il medico, con la stampa, la società. È una cosa diversa. Mi affascina e spero di essere giusto per un lavoro così».

Quale difensore può essere un suo erede?

«Mi auguro che Rugani e Romagnoli possano diventare colonne importanti. Loro secondo me hanno un potenziale, ma è fondamentale, per un difensore, essere punto di riferimento dei propri compagni. In questo, essendo giovani, cresceranno naturalmente. Il talento lo hanno».

Romero è un buon giocatore?

«Ha grandi potenzialità, arriverà in un gruppo con giocatori che possono insegnare molto, sia Giorgio che Leo sono grandissimi difensori. Se sei intelligente e inizi a prendere da loro, migliori molto. E poi, quando arrivi nella Juve, oltre ad essere bravo devi avere personalità. È fondamentale».

C’è un difensore straniero che le piace?

«De Ligt dell’Ajax. È giovane, tosto. Ma il modello vero è Ramos. Quando stai così tanto ad alti livelli in una squadra forte e in nazionale, un motivo c’è. Sei un fuoriclasse».

Qual è il male del calcio italiano? Non vinciamo più nulla da anni…

«Prima di tutto è il nostro modo di giocare il calcio. Lo abbiamo dentro, nella nostra storia. Ma deve cambiare, perché il calcio moderno è fatto anche di altro, oltre la tattica difensiva. Se arrivano le televisioni e danno molti più soldi all’Inghilterra, o vediamo partite in Champions spettacolari, è perché hanno un modo diverso di giocare. Da noi sento dire che sono belli solo gli altri campionati. Sì, però se la tua squadra perde 1 a 0, magari contro la prima in classifica, dici che abbiamo fatto una buona partita, ma se perde 5 a 3 dici che abbiamo preso cinque gol, e diventa una tragedia… Se vuoi un calcio migliore devi cambiare mentalità. E ci mancano gli stadi. Anche questa è una cosa fondamentale, se vogliamo portare spettacolarità».

A proposito di stadi: che cosa pensa delle manifestazioni di razzismo?

«A me il razzismo pare una follia. Il colore di pelle diverso non corrisponde a una razza diversa. Siamo tutti uguali, nella vita e nello spogliatoio siamo tutti fratelli, il colore di pelle non c’entra. Negli stadi puoi trovare la persona razzista ed è giusto che non frequenti più lo stadio e magari trovi persone che si fanno trascinare da altri e che non sanno neanche quello che stanno urlando. Forse anche loro andrebbero messi fuori dallo stadio, perché non sono capaci di decidere autonomamente cosa vogliono nella vita, cosa pensano. Se si fanno trascinare dal cretino di turno o dal razzista di turno, sono come loro».

La Juve l’acquistò dal Wolfsburg per trecentomila euro?

«Sì, io dovevo andare alla Juve prima della Germania. Ma poi non se ne fece nulla. Con la squadra di Magath vinsi uno scudetto e poi arrivai a Torino. A Fabio Paratici devo fare una statua. È venuto di persona a vedere le partite a Wolfsburg, dove non c’è l’aeroporto, un’ora di macchina da Hannover. Una sera mi disse: “Oltre a venire a Wolfsburg noi, le 19 partite che hai giocato, le abbiamo viste tutte”. Ha cambiato la vita a me e io spero di essere stato utile alla squadra, in tutti questi anni straordinari».

I suoi genitori che facevano?

«Mio padre, a Fiesole, aveva il banco di alimentari ai mercati. Lo vedevo poco perché si svegliava alle quattro della mattina e aveva solo la domenica libera. Tornava sempre tardissimo, ma non è mai mancato a una partita. Abbiamo avuto un rapporto contrastato per quanto riguarda il calcio perché era uno di quei genitori che, durante le partite, si sentiva. A me dava fastidio, a volte abbiamo battibeccato. Quando ho iniziato a giocare alla Rondinella, nei dilettanti nazionali, non mi ha più detto niente. Ero diventato grande e sapevo come fare, senza di lui. Il calcio da ragazzi è puro divertimento, voglia di allenarsi che ai bambini non manca mai. Il momento più bello è quando giochi senza pensieri. Magari ti arrabbi perché sbagli o perché la tua squadra perde, ma poi hai subito un’altra partita da giocare, altri allenamenti. Hai tempo per diventare grande».

Forse lei domenica è diventato grande?

«Forse sì».

Che studi è riuscito a fare?

«Ho interrotto in quinta Geometri. Ma quest’anno ho studiato. E darò l’esame. Era un mio obiettivo, da qualche anno. Avevo perso un pezzo, della vita, avevo lasciato qualcosa. L’importanza della scuola non la capisci se non quando sei grande. Non è solo il diploma per il lavoro. La scuola aiuta ad avere e capire le emozioni e a parlare con le persone. Un po’ di cultura generale fa bene, è importante. Posso dirle la verità? Ora devo andare a scuola. Tra dieci minuti ho l’esame di maturità».

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