Sono tante e scioccanti le testimonianze di tifosi laziali tornati dall’inferno di Varsavia. Racconti crudi dell’incubo vissuto da ragazzi e ragazze di ogni età, abbandonati al loro destino, al freddo della Polonia, tra botte, ispezioni anali, impossibilità di difendersi e tanta, tanta paura. Adesso è tempo di scoprire la verità su quanto accaduto nella capitale polacca, ora che tutti, finalmente, sono riusciti a rientrare in Italia da quel maledetto 28 Novembre.
Tra le testimonianze più crude ci sono quelle di Damiano rientrato grazie ad un sacrificio economico, Stefania una ragazza che avrà per sempre nella mente le immagini di quel gulag e Davide che, col terrore negli occhi, racconta la disumanità dei carcerieri.
Damiano: “Sono scosso. Non è facile tornare alla vita di tutti i giorni dopo un’esperienza del genere. Mi è sembrato di vivere un’altra vita. Quando sono atterrato, ho lasciato il mio bagaglio in albergo e poi sono andato all’Hard Rock per mangiare qualcosa. Li ho trovato circa 200 tifosi laziali ma la situazione era tranquilla. Improvvisamente ho sentito delle grida e tanta gente correre: così ho pensato di correre anche io. La polizia ci ha fermato, ammanettati. A me hanno schiacciato il viso sull’asfalto e con il cappuccio e la sciarpa respiravo a stento. Mi hanno accusato di avere il volto coperto ma in realtà mi stavo comprendo dal freddo, non indossavo un passamontagna. Le ore nelle carceri erano interminabili, avevamo paura del processo anche se eravamo consapevoli di non aver fatto nulla. Le guardie ci insultavano e ci prendevano in giro nella loro lingua. Sono libero grazie a mio padre che ha pagato la cauzione di circa 7200 euro. Ora ho bisogno di stare tranquillo e riprendermi dallo schock. Spero che anche gli altri ragazzi possano essere liberati presto anche la cauzione così salata non è alla portata di tutti”.
Stefania: “Mi hanno caricata su una camionetta e volevano chiudermi in una sezione separata dagli altri, una specie di gabbia. Sono scoppiata in lacrime e, per fortuna, vedendomi così, hanno deciso di farmi uscire da lì e mettermi accanto a una poliziotta. Arrivati in caserma, ci hanno tenuto lì in attesa per ore senza che accadesse nulla. C’era un poliziotto che mi rideva in faccia, ci prendevano in giro e quando gli chiedevamo perché fossimo lì ci dicevano che non lo sapevano. Dopo qualche ora hanno cominciato a farci foto segnaletiche e a prenderci le impronte digitali. Ero spaventata, mi veniva da piangere, ero l’unica donna. Sarei stata separata dal mio fidanzato ed ero destinata a rimanere sola in cella. L’idea di rimanere rinchiusa e da sola era destabilizzante. Avevo paura che potesse succedere qualcosa, che qualcuno potesse toccarmi. Ho supplicato il poliziotto che mi accompagnava di non chiudermi là dentro, soffrendo di claustrofobia ma quello non mi ha ascoltato. Lo sconforto era tanto, provavo a chiamare qualcuno, a bussare, ma nessuno è mai venuto da me. La cella era quello che era, la finestra era piccola, c’erano due tavole di legno per appoggiarsi, non mi è stato dato nulla né una coperta, né un cuscino. La mattina avevo avuto anche una crisi di panico, ma mi sono rifiutata di andare in ospedale, non mi fidavo. Ho chiesto loro un un po’ d’acqua, ma loro mi hanno portato un bicchiere d’acqua bollente, di quella che si sua per fare il thé”.
Davide: “Mi hanno fatto l’ispezione anale, come con i trafficanti di droga. Chiedevo acqua dicendo ‘water, water!’, ma niente… hanno costretto un altro ragazzo a fare le flessioni, le ha fatte nudo. Ho capito cos’è il terrore. L’inferno è iniziato nel pomeriggio di giovedì 28 novembre, quando ci hanno fatto salire dopo quattro ore su dei furgoni. Io avevo paura, non riuscivo a salire su quello in cui mi volevano far entrare, gridavo che soffrivo di claustrofobia. Mi chiedevano se avevo moglie, figli a carico e immobili; erano interessati solo alla mia condizione economica.” “Stanotte mi sono svegliato urlando, mi sembrava di essere ancora in cella. Poi ho visto le mura di casa ed ho tirato un sospiro di sollievo”.